LA CHIESA CHE CAMBIÓ NOME TRE VOLTE
E’ un freddo sabato di gennaio, provenendo da Via Duomo stiamo percorrendo la caotica e popolosa Forcella, a ridosso della Giudecca. La confusione di tutti i giorni si mescola a quella delle orde di turisti che affollano il centro storico di Napoli durante tutto l’anno. La musica ad alto volume di un bar, gli onnipresenti Spritz, il cibo venduto in strada e nelle tante botteghe, gli strani personaggi che popolano questa parte della città …tutto deve sembrare una sorta di eterno carnevale a chi viene da fuori. Il clamore e la volgarità (nel senso letterale di vulgus) fanno dimenticare che siamo nel cuore di una città nobilissima che vanta quasi tremila anni di storia, nella parte più profonda e oscura che nasconde tesori, ormai sepolti dall’incuria e dall’oblio.
A noi piace riscoprire il passato andando a caccia di queste vecchie storie, e siamo, dunque, sulle tracce di uno di questi luoghi dimenticati: una chiesa del XIII sec., dove i sovrani angioini con la loro corte si recavano a pregare il sabato, e di cui si è quasi completamente persa la memoria.
Svoltiamo in una stretta e scura strada laterale, Via Santa Maria Antesaecula; tenete a mente questo nome. Questa parte della città è stata ormai colonizzata da stranieri provenienti da ogni parte del mondo, una variegata umanità che per lo più vive in condizioni assai miserevoli, accrescendo il senso di decadenza. Niente lascia immaginare luoghi regali, cortei di dame e cavalieri. Entriamo adesso in un oscuro portico dall'evocativo nome di “Fondaco cappella dei paratori” e capiamo di essere molto vicini alla meta, ma non è quello che ci immaginavamo. Dell'antichissima chiesa di Santa Maria a Sicola ormai rimane poco. La chiesa, lungi dall’essere regale, non ha più nemmeno l’aspetto di un luogo sacro. Il massiccio portone di ingresso è chiuso con assi di legno inchiodate alla buona ed un catenaccio. Se non fosse per alcune lapidi non saremmo certi di essere nel posto giusto. Già, le lapidi … qualcosa rimane, qualcosa di estremamente emozionante, purtroppo seminascosto in un groviglio di cavi di ogni genere (sicuramente abusivi) che ne svilisce la memoria e la storia.
Sulla sommità del portone una lapide recita ARCICONFRATERNITA DI SAN NICODEMO DEGLI APPARATORI.
Sulla destra una lapide abbastanza recente (1940) che ricorda una missione di padri missionari.
Tuttavia è la lapide sulla sinistra che stavamo cercando, quella più interessante, quella che racconta il passato più remoto di questo luogo. É decisamente antica e la scritta in latino ricorda quanto segue:
dominus Ladislaus rex cum
morbo siatice esset infectus
conversus ad beatam virginem
siculam liber evasit
diva Iohanna soror regis
ladislai qalibet hebdomada
in die sabati eamdem
summa cum veneracione
visitabat ad eademque
singuli pacientes sani redibant
A questo punto è necessario andare indietro di secoli e ripercorrere la storia di questo luogo. La Chiesa di Santa Maria a Sicola fu edificata nel 1275 d.c. da Pietro Sicola, nobiluomo del sedile di Forcella nonché alto dignitario alla corte di Re Carlo I d’Angiò (alcune fonti la attribuiscono a sua sorella Petronilla Sicola) e dedicata alla madonna. La chiesa faceva parte di un complesso più grande, di cui oggi si può solo intuire la consistenza, adibito a ricovero per giovani fanciulle povere. Fu tuttavia più di un secolo dopo, ancora in piena dinastia angioina, che questa chiesa seminascosta nel ventre della città divenne un luogo celebrato ed importante, reso tale dal Re Ladislao d’Angiò Durazzo e da sua sorella Giovanna. Il re era affetto da una fastidiosa sciatica che nessun cerusico era stato in grado di guarire. Un giorno di sabato, mentre il Re era in preghiera, il doloroso malanno si attenuò fino a sparire del tutto misteriosamente e la causa della guarigione fu attribuita al potere magico e salvifico dell’immagine della madonna contenuta nella chiesa. Ed è esattamente ciò che la lapide ricorda, la guarigione miracolosa del re: “il re Ladislao si ammalò di sciatica e si rivolse alla beata vergine Sicola che lo guarì. Giovanna, sorella del re Ladislao, ogni settimana nel giorno del sabato la visitava con grande venerazione e ogni malato tornava sano”.
Fu dunque Giovanna a rendere importante questa chiesa e la sua devozione non cambiò nemmeno dopo la prematura morte di Ladislao e la sua ascesa al trono del Regno con il nome di Giovanna II. Assai legata alla memoria del fratello, vi si recava ogni sabato in pellegrinaggio con tutta la corte, continuando ad arricchirla ed abbellirla. Con ogni probabilità fu lei stessa a fare apporre la targa a ricordo dell’evento miracoloso.
Nel tempo, il popolo prese a storpiare il nome che da "Sìcola" finì per diventare Saecula e poi Antesaecula, anche in riferimento alla figura della madre di Cristo. Questo nome "antesaecula" ce lo troviamo in altre parti della città, in particolare nel quartiere della sanità, dove c’è una Via Maria Antesaecula diventata famosa perché al n°110 c’è la casa natale di un certo Totò. E la spiegazione è sempre collegata a questa chiesa. Con lo sviluppo caotico e incontrollato della Napoli del seicento, quei luoghi furono giudicati poco sicuri e poco salubri per delle fanciulle povere e indifese. Chiesa e conservatorio furono spostati proprio nel rione della Sanità e questa Santa Maria perse la sua importanza e centralità.
Questa chiesa cambiò nome tre volte: Santa Maria a Sicola; poi, Santa Maria Saecula o Antesaecula; infine, Chiesa di San Nicodemo degli apparatori. Nel 1824, infatti, Ferdinando I di Borbone concesse la chiesa alla confraternita di San Nicodemo degli apparatori. I "paratori o apparatori" erano coloro che venivano chiamati ad addobbare le chiese nelle ricorrenze. E dunque anche il fondaco divenne “fondaco cappella dei paratori”.
Cosa ne è oggi della Chiesa? Fu un articolo del lontano 2010 del Mattino, a firma di Paolo Barbuto, “deposito abusivo dentro la cappella di Re Ladislao”, che ci fece conoscere questo luogo e la sua storia. Il quotidiano partenopeo denunciava lo stato di terribile abbandono e devastazione in cui versava questa antica e nobile vestigia della storia napoletana.
Sono trascorsi 15 anni e la situazione non sembra essere cambiata. Nella cappella non c’è più l’effige sacra della madonna che guarì il re dalla sciatica, tanto cara alla regina Giovanna II (forse non era più li da secoli), ma la chiesa è ancora ridotta ad una grotta informe colma di rifiuti edili. A malapena si scorge ciò che rimane dell’altare.
Una città che ribolle di turisti avidi di antiche storie e testimonianze del passato che poche città come Napoli possono dare. Eppure, questa chiesetta cara agli angioini sembra destinata a rimanere per sempre un fantasma, uno dei tanti spettri del tempo passato che si agita nelle viscere più nascoste della città, pronti a ridare meraviglia a chi ostinatamente li cerca e li trova. Allora non rimane che usare l’immaginazione.
E’ un sabato primaverile, la giudecca vecchia è in festa e una maestosa corte di dame, nobiluomini e cavalieri guidati dalla Regina Giovanna sfila per le strade; il popolo deferente si apre e si inchina al loro passaggio. Infine, il corteo entra nel fondaco e scompare nella Chiesa. Nessun dolore alla schiena, nessun dolore nell’anima: stavolta è tutto vero … almeno per alcuni istanti, come quelli che precedono il risveglio che fa svanire il sogno.
© Giovanni Rossi Filangieri 29.1.2025