Napoli è una realtà complessa ed il suo centro storico ne costituisce l’esempio più puro. Duemilasettecento anni di storia si sono sedimentati in un’area di pochi chilometri quadrati. La città “gentile” del medioevo cedette il passo nel cinquecento a quella sovraffollata e verminosa del periodo vicereale con le sue assurde regole, come il divieto di edificare "extra moenia", cioè fuori delle mura della città. Un dedalo fitto di palazzi, antiche botteghe, chiese, monasteri, stratificatosi per quante epoche la città ha attraversato. Un gigantesco puzzle in cui è difficile orientarsi, ma è altrettanto stupendo perdersi. Questi vicoli stretti e bui raccontano storie antichissime: molte dimenticate, alcune tenute a memoria dalla cultura popolare in vecchi detti e canzoni. A Napoli niente è scontato e niente è così evidente; ogni cosa va cercata e scoperta con la lanterna della conoscenza, dell’intuito e della pazienza. È tutto meravigliosamente collegato da un filo invisibile fatto di vicende umane, di magie e di miracoli.
Quello che oggi vi raccontiamo è un miracolo, una storia di resurrezione che risale a circa dieci anni fa. Usiamo volutamente la parola resurrezione e non rinascita.
E' il 2013, Napoli sta da anni conoscendo una rinascita culturale ed economica e si è lasciata alle spalle gli anni bui del terremoto. La voglia di riscoperta delle tradizioni e delle radici culturali nei giovani napoletani si mescola con i ricordi e le superstizioni dei più anziani. Mito e realtà spesso si confondono da queste parti e la ricerca, ogni ricerca diventa una autentica avventura. Massimo Faella, Simona Trudi e Angela Rogliani, all'epoca giovani studiosi di materie artistiche, si trovarono tra le mani un libro, uno di quei meravigliosi libri illustrati su Napoli che si possono comprare a Piazza Dante, sotto i portici di Port'alba o sulle bancarelle lungo i decumani per pochi spiccioli. Libri dei sogni ed accessibili a studenti col portafoglio non proprio gonfio di banconote. Il volume dal titolo Le chiese chiuse di Napoli, autore Paolo Barbuto, descriveva il patrimonio religioso abbandonato e tra le decine di chiese antichissime ce ne era una piccola, ma con una storia singolare, legata al culto delle “anime pezzentelle” e ad un miracoloso teschio con “le orecchie”: la chiesa di Santa Luciella.
Santa Luciella è una chiesa incastonata nel ventre del centro storico di Napoli. Non affaccia sui decumani e non ha un aspetto monumentale. E' piccola ed è nascosta nelle pieghe di uno stretto cardine che collega il decumano inferiore, o Via San Biagio ai librai, e via San Gregorio Armeno, la strada degli artigiani presepisti; se ne sta in una angoletto buio, quasi si vergognasse al cospetto delle sontuose chiese sparse tutto intorno. Eppure ha una storia antica. La chiesa fu fondata intorno all’anno 1327 da Bartolomeo di Capua, consigliere di Carlo II d’Angiò e di Roberto I già committente di alcuni tra i più belli ed importanti portali gotici di chiese napoletane. Indicata, fino al 600 come Cappella dell’Arte dei Molinari o Mulinari, cioè dei mugnai e dei lavoratori dei Mulini, diverrà in seguito la Cappella dei “pipernieri”, gli scalpellini che lavoravano il Piperno. Il piperno è una pietra durissima e chi la lavorava con lo scalpello era esposto al rischio di ferirsi gravemente gli occhi. Fu probabilmente per questo che la chiesa fu dedicata a Santa Lucia, protettrice della vista. Nel 1748 la chiesa divenne sede dell’Arciconfraternita dell’Immacolata Concezione SS. Gioacchino e Carlo Borromeo.
Gravemente danneggiata dal terremoto del 1980 e giudicata inagibile, venne chiusa e di fatto abbandonata all’azione deleteria degli agenti atmosferici ed ai furti. Approfittando dello stato di abbandono, la chiesa fu usata addirittura come discarica abusiva di materiale vario. È, dunque, rimasta così per più di trent’anni.
Un miracolo, si diceva perché da quella lettura la chiesa di Santa Luciella non è più uscita dalla mente di quei ragazzi che con tenacia decisero di riportarla dalle tenebre dell’oblio alla luce. Si provvide a fondare una associazione culturale dal nome “respiriamo arte”. Attraverso questo strumento giuridico Massimo, Simona e Angela acquisirono maggiore visibilità e credibilità. Ottennero così un permesso speciale dalla Curia di potere accedere nella chiesa per motivi di studio. Quando si recarono per la prima volta nella chiesa quello che videro fu davvero stupefacente e drammatico allo stesso tempo. Nella polverosa penombra la chiesa appariva seriamente danneggiata, oscurata da cumuli di detriti e oggetti di vario tipo. L’accesso all’ipogeo era attraverso una stretta apertura e lo stesso non era in condizioni migliori della chiesa superiore, con le terre sante ingombre di spazzatura e oggetti di ogni tipo. Con grande gioia constatarono che il teschio con le orecchie, di cui avevano letto nel libro, c’era ancora. Raccontano i ragazzi dell’associazione che la vera sorpresa fu all’esterno. La gente del vicolo, vedendo la chiesa aperta dopo tanto tempo, cominciò a domandare notizie della “capa co’ e recchie”. La chiesa, morta per la società, era più che mai viva nei ricordi della gente del posto e nelle leggende popolari. Un’idea che sembrava folle ed irrealizzabile stava diventando una splendida realtà. Ci sono voluti tre anni, ma nel 2016 l’associazione ottenne l’affido in comodato del complesso. Le difficoltà cominciavano in quel momento, con la necessità di reperire gli ingenti fondi necessari per la messa in sicurezza ed il recupero artistico architettonico. L’associazione investì tutto quello che guadagnava dalle visite guidate nell’altra chiesa a lei affidata, SS. Filippo e Giacomo, ma sarebbe stato impossibile senza l’aiuto esterno. Il Pio Monte della Misericordia venne in soccorso ed investì nel progetto stanziando una cospicua somma. Altri generosi sponsor si aggiunsero e finalmente il sogno divenne realtà: il 5 aprile 2019, la chiesa venne riaperta al pubblico, rivedendo la luce dopo decenni. Come un'antica maledizione, nel 2020 arrivò l’epidemia da covid che mise a rischio il progetto. Invece, il progetto era più forte di tutto e “passata a nuttata” l'associazione ha finito di consolidare il patrimonio culturale con un intervento all’ipogeo e ai teschi, in primis il suo nume tutelare: il teschio con le orecchie. Nel Natale del 2021 un inaspettato regalo: su Rai 1 andò in onda “Una notte a Napoli”, documentario nel quale Alberto Angela illustrava di notte i tesori principali della città partenopea, includendo anche Santa Luciella. Ricorda Simona Trudi “Il giorno dopo la messa in onda, il 26 dicembre, la fila per visitare la cappella occupava tutto il vicolo”. Il resto è storia recente.
La chiesa di Santa Luciella si trova in Vico Santa Luciella ai Librai n°5. Ha un ingresso principale sul fianco dell’unica navata ed uno secondario. L'ingresso principale ha un portale in piperno con stemmi della famiglia Di Capua, sormontato da un ovale con un grande stemma circolare dell'antica arciconfraternita della chiesa ed un grande finestrone gotico sulla sinistra. Al di sopra dell'ingresso secondario vi è un piccolo campanile con due campane: la più grande è dedicata all'Immacolata, l’altra a Santa Luciella.
L'interno è a navata unica rettangolare. Ha un altare maggiore ed altri due altari più piccoli. Uno di questi è dedicato proprio a Santa Lucia. Ha un piccolo coro ligneo, attualmente in fase di ristrutturazione, che ospita un organo settecentesco. Il coloratissimo pavimento è il classico piastrellato maiolicato napoletano. Nella chiesa ci sono alcuni manichini che indossano il saio bianco con la mantellina azzurra dell'arciconfraternita settecentesca dell’Immacolata Concezione SS. Gioacchino e Carlo Borromeo. Questi abiti erano stati trovati sepolti nelle macerie in mezzo ad altri rifiuti.
Come molte antiche chiese napoletane, anche santa Luciella aveva il suo ipogeo funerario dove si trattavano i morti con il rituale della "scolatura", per poi inumarli. Questa pratica si diffonde a partire dal XVII secolo: si metteva il cadavere seduto in una apposita nicchia trattenuta da cinghie sotto le ascelle fissate alla parete a scolare, cioè a perdere i liquidi corporei. Venivano, infatti, “bucati” sul collo, nel bacino e in genere ove si formavano sacche di liquidi per facilitare il processo di essiccamento; da questa pratica è nato il famoso epiteto “schiatta-muorto” che indicava quello, di solito condannati a morte, preposto a questo davvero tremendo incarico. Una volta asciugato il corpo da tutti i liquidi, il corpo veniva messo in una fossa comune posta in basso. I teschi, dove si riteneva dimorasse lo spirito del defunto, venivano esposti. Questa antica credenza è rimasta viva nel popolo napoletano, considerando questi teschi un collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Il cosiddetto “refrisco” è la cura che una persona dedica al teschio che adotta: lo pulisce, prega per la sua anima, dotandolo talvolta di una “scarabattola” (teca di vetro e metallo) per proteggerlo.
Ecco un’antica giaculatoria:
Anime sante, anime purganti,
Io son sola e vuie siete tante
Andate avanti al mio Signore
e raccontateci tutto il mio dolore
Prima che s'oscura questa santa giornata
da Dio voglio essere consolata.
Pietoso mio Dio col sangue Tuo redento
a tutte le anime del Purgatorio salutammelle a tutti i momenti,
Eterno Riposo
Grazie a questo rinfresco l’anima del purgatorio avrebbe potuto salire più velocemente in paradiso e, una volta lì, potere intercedere presso Dio per le grazie chieste. Ci sono teschi famosi che hanno goduto, e ancora godono, di una venerazione e un culto degni di una divinità: nomi quali Lucia la sposa cadavere, il "monaco" (o' capa e Pascale) in grado di far conoscere i numeri vincenti al gioco del lotto, il "capitano", figura di riferimento emblematica del cimitero delle fontanelle o quella di "donna Concetta" nota più propriamente come "a' capa che suda" sono conosciuti da tutti.
Ebbene anche questo ipogeo aveva, ed ha, la sua star: il teschio con le orecchie, diventato popolarissimo e “rinfrescatissimo”. Già, perché quelle cartilagini aperte, che somigliano a dei monconi di orecchie, fecero ritenere quel morto più propenso ad ascoltare le richieste di grazia rispetto ad altri. La chiesa ha provato in tutti i modi a scoraggiare questi riti ancestrali dal sapore pagano, senza però riuscirci ed ancora oggi, Santa Luciella non fa eccezione, sono largamente e sentitamente praticati. Tutti gli ipogei funerari napoletani sono pieni di ex voto, preghiere, foto e doni di ogni genere portati alle “capuzzelle”. Per qualche turista potrà apparire come una macabra usanza, ma per il popolo napoletano è un autentico culto.
Il teschio con le orecchie è ancora lì, sopravvissuto ad ogni genere di pericoli. Osserva austero dalla sua cornice in piperno e vi aspetta.
Ringraziamo ancora una volta l’associazione “Respiriamo arte” che ci ha ospitato, mettendoci in condizioni di agio per realizzare le immagini della chiesa e del suo ipogeo.
Invitiamo tutti a visitare il complesso di Santa Luciella e a supportare l’associazione che, ricordiamo, oltre ad aver salvato un bene inestimabile dalla rovina, ha creato anche tante opportunità di lavoro "sano" per giovani laureati, in una realtà come quella napoletana che non ne offre tante.
CONTATTI
vico Santa Luciella ai Librai, 5
80138 – Napoli
Aperti: Tutta la settimana
dalle 10:15 alle 18:30
+39 331 420 90 45
respiriamoarte@gmail.com