LA VILLA DEL PRINCIPE ARCHEOLOGO

L’esplorazione urbana regala emozioni uniche, restituendo vita a vicende mai raccontate. Dietro porte e cancelli si nascondono a volte mondi meravigliosi e dimenticati, dei quali si cerca di ricostruire la storia frugando tra le nebbie del passato. Le domande che vengono in mente sono sempre le stesse: quali vicende si saranno svolte tra queste mura; che persone avranno vissuto qui; che sogni avevano; che segreti nascondevano.

Capita in casi eccezionali di conoscere in anticipo molte delle risposte a queste domande e desiderare unicamente di ripercorrere quella che non è solo una storia del passato ma anche la propria personale eredità, il legame con le proprie radici. E allora l’emozione è duplice ed è indescrivibile. Ha scritto Thomas Eliot:” Il tempo presente ed il tempo passato sono forse presenti entrambi nel tempo futuro e il tempo futuro è contenuto nel tempo passato. Se tutto il tempo è eternamente presente, tutto il tempo è irredimibile. Ciò che poteva essere è un'astrazione che resta una possibilità perpetua solo nel mondo delle ipotesi. Ciò che poteva essere e ciò che è stato tendono a un solo fine che è sempre presente”

 

La Storia

 

La storia di questa elegante dimora comincia in piena belle époque.

Il 23 agosto 1869 Giovanni Filangieri, Principe di Arianello e Barone di Lapìo, acquistò un vecchio fortino, lo riadattò e ne fece la sua residenza. Alla sua morte il 18 febbraio 1896 l’intera sua fortuna passò ai suoi due figli, Carlo e Teresa. I due si divisero il vasto promontorio su cui insisteva il castello, acquistando anche altri terreni limitrofi, e costruirono le loro residenze.

Colto, appassionato di archeologia e di teatro, fine collezionista Carlo era anche un arguto uomo d’affari, investiva i suoi soldi ed aveva partecipazioni in rinomate Società. Non era un possidente che si dedicava ad una vita oziosa, ma aveva molti interessi che gli valsero anche il cavalierato della Corona d’Italia, conferito il 13 marzo 1905. Grande viaggiatore, dal carattere curioso e avventuroso, mostrò un peculiare interesse verso le antichità che lo portò anche ad essere un apprezzato archeologo, della cui appassionata attività esiste traccia evidente negli studi sulle antichità pompeiane. Carlo aveva i rudimenti tecnici e la cultura appropriata per questo tipo di attività in un periodo, peraltro, in cui le “antichità” e gli scavi di ricerca ancora non avevano rilievo prettamente pubblico. Non era infrequente nei poderi dell’area vesuviana imbattersi in rovine romane o medioevali: una lapide, una colonna, una statua etc. L’idea mutuata dalle esperienze borboniche è scavare in profondità laddove vi fossero segni di vestigia antiche che potessero fare supporre la presenza nascosta di manufatti del passato. Questo Carlo lo fece in maniera professionale e trasparente, stendendo dei veri e propri accordi, concessioni onerose di scavo, con i proprietari dei fondi ed agendo in stretta collaborazione con le autorità, in primis la direzione del museo di Napoli dove sono ricoverati gran parte dei reperti trovati, oggi Museo “archeologico” nazionale di Napoli (M.a.n.n.). Di buona parte di questa attività è conservata documentazione, una fitta corrispondenza tra Carlo e la direzione dell’allora Museo Nazionale e degli Scavi di Napoli e Pompei che copre buona parte del primo decennio del 1900. 

Ebbe sei figli dalla moglie Italia, tutti nati e cresciuti nella splendida magione da lui voluta: Giovanni, Pia, Anna, Riccardo, Federico e Teresa. 

Questa Villa fu costruita partendo da una preesistenza, una vecchia Torre difensiva eretta dagli spagnoli intorno al 1567, in cui già il Principe Filangieri aveva fatto la sua cappella privata. La realizzazione della Villa fu affidata al celebre architetto Pasquale Filosa, autore di diversi eleganti palazzi Napoletani. 

Il Filosa seguì lo schema del castello declinato nella sua accezione rinascimentale, giocato anche sui rimandi (merlature) al suo passato militare. Il primo livello, leggermente rialzato rispetto al piano di calpestio del viale di accesso, ospitava le sale di rappresentanza e un ampio terrazzo; il secondo livello era destinato originariamente alla zona notte. Entrando nella Villa dall’ingresso principale dalla facciata posta a nord si entra nella zona di rappresentanza, con diversi saloni, studioli, saloni veranda e terrazzi. Il salone immediatamente sulla destra dell’ingresso, con pavimento di marmo policromo, era finemente decorato con stucchi bianchi, affreschi e quattro ovali datati 1898, nei quali comparivano Giovanni Filangieri, Carlo, sua moglie Italia e la loro figlia più piccola Teresa, morta prematuramente. Accanto vi era uno studiolo con gli stemmi di casa Filangieri. Sulla sinistra vi era un’altra sala, alquanto angusta, tra l’ingresso che dà sul giardino e il salone che dà sul terrazzo. Maestosa era la sala di conversazione in cui spicca un bellissimo affresco “grande paesaggio con ninfe”: un gruppo di sei figure è disteso su un prato, allietato dalla musica sullo sfondo di un grande albero coloratissimo e la costa. 

Giovanni Filangieri

Carlo Rossi Filangieri


Sempre sul lato nord, all’estremità sinistra, c’era la cappella, dedicata a Santa Teresa, che come accennato occupa la vecchia torre di guardia spagnola. L’ingresso è sormontato da una lunetta in cui è rappresentata “Santa Teresa in estasi”. Ai lati dell’ingresso vediamo due roseti speculari stilizzati, poi due croci “potenziate” e ancora roseti in quello che in un tempio greco sarebbe il timpano, con due figure di rapaci e poi sulla sommità una Stella di David circolata con al centro una rosa. Una simbologia che si apre a tante interpretazioni. La rosa, ad esempio, è un simbolo mariano ma anche esoterico massonico (Rosacroce). Anche la rosa nel pentacolo farebbe pensare ad una allusione di tipo esoterico piuttosto che religioso. La croce “potenziata” è un simbolo antichissimo, precristiano presente nelle decorazioni ceramiche del neolitico europeo. Associata alla croce di Gerusalemme, che ne è una variante, è un simbolo araldico presente sulle monete bizantine ad esempio o sugli scudi come alternativa alla croce cristiana.

Per quanto riguarda l’interno, un grande affresco nell’abside raffigurava l’estasi di Santa Teresa. Le pareti della piccola navata erano scandite da terne di colonnine, mentre nella volta a botte campeggiava un tetramorfo, croce greca dipinta con i simboli dei quattro evangelisti: il bue alato (Luca), il leone alato (Marco), l’aquila (Giovanni), la figura umana alata (Matteo). La corrispondenza fra vangeli e volti del tetramorfo determina l'ordine con cui i vangeli si trovano nei codici antichi e nelle bibbie a stampa odierne. L'ordine seguito, infatti, è quello di Ezechiele: uomo (Matteo), leone (Marco), bue (Luca), aquila (Giovanni). Qui tale ordine non fu seguito. Al centro i versi, in latino ed in greco, del vangelo: “io sono la luce del mondo, chi mi segue non camminerà nelle tenebre”.

Il pavimento è realizzato a scacchi di marmi bianchi e grigi, con una stella a più punte nella zona presbiteriale. La cappella fu intitolata a Santa Teresa in memoria della omonima sorella di Giovanni Filangieri, da cui la lapide monumentale sul fondo della chiesa che la ricorda.

Dalla facciata sud, attraverso una bella scalinata che costituisce l’ingresso della Villa secondario ma non meno curato e scenico, si accede ad un’area del giardino dove vi è l’ingresso al teatro della Villa, che risulta sottoposto ad uno dei terrazzi del primo livello.

Il teatro, denominato “San Carlo”, costituisce la vera peculiarità della Villa. Infatti, normalmente ci si trova di fronte a piccola sale private al di fuori degli edifici principali, magari isolate nei giardini e spesso con carattere transitorio, pronte ad essere smontate col sopraggiungere dei rigori invernali. Uno dei pochissimi esempi di una struttura teatrale incardinata in una villa è la sala privata di Villa Nava a Portici che si meritò una recensione sulla rivista «Il teatro illustrato» del 1905. Eppure questa struttura aveva delle dimensioni esigue e non presentava le peculiarità di uno spazio teatrale propriamente detto. Il teatro San Carlo, invece, occupa un intero livello, quello più basso, della Villa e rivela tutti i caratteri specifici di un grande teatro pubblico.

Dal piccolo ingresso, leggermente incassato in una nicchia cassettonata in stile vanvitelliano, si accedeva al foyer che, attraverso una scala, conduceva ai 5 palchetti, 4 su due piani ed uno grande centrale d’onore. La sala aveva poltroncine per un numero di circa duecento posti. L’arco di scena preludeva ad una quinta ed un palcoscenico generosi e atti ad ospitare anche ingombranti e complesse scenografie. Il teatro è frutto di una commistione di stili diversi che si rifanno, come costume dell’epoca, al mondo classico. La presenza nella navata di nicchie e ovali occupati da statue e busti del mondo classico servivano a dare un senso di ordine ma anche di spazialità. Gli amorini e le danzatrici dipinti tra le pareti e l’arco di scena rimandavano anch’essi al mondo perduto dell’era classica. I palchetti erano rivestiti da ricchi parati a motivi floreali con teste di gorgone in stucco a rilievo e decorazioni che riprendevano quelle della sala. Il plafond, dipinto a tempera, aveva la scena centrale incorniciata da un ovale che creava l’illusione di una sala curvilinea e non rettangolare. Il soggetto era costituito da uno sfondo di cielo con le nuvole dove numerose figure si affollavano in un vortice lungo i bordi della cornice. Nella parte alta del dipinto tre soggetti alati che stringevano tra le mani strumenti musicali; sul lato sinistro volteggiavano figure femminili, in basso una figura maschile alata che impugnava una fiaccola, probabilmente un Mercurio, e un’altra femminile con una veste azzurra stellata, incoronata da una ghirlanda di fiori, in compagnia di un putto alato e di un cigno, probabile rimando al mito di Leda. Tutte queste personificazioni simboliche erano una chiara celebrazione delle arti in tutte le possibili forme.  

Il parco era “all’inglese”, con un misto di specie autoctone ed esotiche in un gradevole disordine, alternativo alle geometrie innaturali del giardino all’italiana.

Oltre a celebrare la casata dei Filangieri di Arianello con i busti di Giovanni e Gaetano, la grande scritta circolare col nome “Filangieri” attorno ai detti busti, tutto il parco è una proiezione immaginifica ed intimistica della personalità di Carlo. Nomi quali la “casetta giapponese”, la “casa dei conigli”, il “tempietto” riempiono i diari, le lettere, i pensieri dei membri della famiglia, in special modo di Anna cui si deve la sopravvivenza dell’archivio e dei cimeli di famiglia, luoghi la cui eco è arrivata fino a noi, con una intimità e una vicinanza inusuali visto che non li abbiamo potuti vivere. Carlo aveva disseminato tutte queste meraviglie quasi nascondendole nel parco, come doni da scoprire e vivere con pienezza.

Camminando nei viali del parco avremmo incontrato la voliera, la serra ispirata a modelli del neoclassicismo pompeiano, con mezze colonne doriche che si addossavano ai pilastri scandendo la sequenza delle ampie vetrate.  Ci saremmo imbattuti nella “casetta giapponese”, la singolare coffee house incastonata tra gli alberi, il piccolo zoo. Avremmo ammirato la costa dal belvedere, una terrazza ricavata in riva al mare, oggi diroccata ma ancora esistente, con il perimetro scandito da dodici colonnine, terminanti con un pomo e reggenti una copertura metallica. Costeggiando il mare si giungeva alla casetta sul mare, simile a una torre di guardia, ai piedi della quale era posto l’approdo. L’estremità occidentale del giardino, destinata a prato e frutteto, era contrassegnata da una raggiera che aveva il fulcro in una fontana circolare, ancora esistente, da cui partivano otto viali principali che s’intersecavano con altri secondari. 

Oggi

Mio padre mi aveva sempre parlato di questa mitica grande dimora, ma i suoi erano ricordi quasi fantastici di bambino mischiati a quel poco che ricordava avergli raccontato suo padre Giovanni, morto prematuramente a soli 55 anni il 12 giugno 1954, quando lui era appena adolescente. Per quel poco che ho appreso la Villa fu donata ad un istituto religioso, che ha effettivamente occupato l’immobile fino agli anni settanta, come ho potuto appurare, per poi finire affidata al centro di recupero tossico dipendenti “La tenda” fino agli anni duemila. La Villa era in ogni caso uscita dai radar della mia famiglia fino agli inizi degli anni novanta, allorquando Anna, la sorella di mio nonno Giovanni, tornò a vivere a Napoli. Visse ancora solo pochi mesi e, prima di morire, ci affidò tutto quello che aveva collezionato, conservato gelosamente e poi custodito portandoselo in giro per l’Europa: in una parola ciò che rimaneva dell’archivio di famiglia. Consisteva in svariati scatoloni di libri, documenti, fotografie e strani oggetti, molti dei quali provenienti proprio dalla Villa. Io ero poco più che ventenne e mi incuriosivano molto quelle cose che venivano dal passato. Prima ancora che studiarle, era necessario dare un criterio ed un ordine a quella massa indistinta di cose. Il risultato fu di apprendere molti particolari della storia e le vicende dei miei avi. In quel periodo, alcuni studiosi dedicarono spazio alla Villa all’interno di una pubblicazione universitaria chiedendo anche la nostra collaborazione per quanto atteneva ai documenti e alle foto d’epoca. Fu necessario, quindi, digitalizzare tutto (fotografie, documenti, lettere etc.), anche per preservare l'archivio dall'inevitabile decadimento; il che ha richiesto molto tempo e pazienza.

Nel frattempo, sono trascorsi altri anni, per l’esattezza quasi trenta, ed ho finalmente trovato il tempo ed il coraggio di immergermi in quella massa di informazioni che coprivano un arco temporale di secoli, con particolare preminenza al periodo che va dalla seconda metà dell’ottocento agli anni 50 del novecento. Tuttavia, è stata la varietà e la quantità di informazioni che hanno fatto sì che la loro casa e il loro passato cominciassero a diventarmi assai familiari. Avevo preso a percorrere con la fantasia i viali fiancheggiati da alberi secolari, fermandomi davanti alle gabbie dello zoo dove c’erano antilopi e altri animali esotici, ammirando le piante allevate nella penombra della serra per poi godere della pace e della frescura della cappella nella torre. Un viaggio molto più che onirico. Sentivo quel luogo talmente mio che non mi bastava più immaginarlo o osservarlo nelle foto vecchie di un secolo, sbiadite e macchiate. Volevo immergermi nella storia, nella mia storia.

La Villa, ormai abbandonata e vilipesa da almeno un ventennio, sembrava assolutamente impenetrabile, anche per la stessa conformazione dei luoghi…finché non è arrivato un aiuto inatteso. Sembrava proprio che qualcuno da qualche angolo remoto dell’invisibile volesse che entrassimo in quei luoghi. 

Di insuccessi nelle esplorazioni ce ne sono tanti, li si mette sempre in conto e si può dire che ci siamo abituati. Adesso però era diverso, stavolta sarebbe negata una gioia talmente grande che va ben oltre le sensazioni grandiose che l’esplorazione di un luogo così spettacolare può regalare. Così, pianifichiamo tutto con la massima cura cercando di essere il più possibile concentrati, senza pensare ad un eventuale fallimento. Sfruttando anche la decennale esperienza di urbexer in un vero lampo ci troviamo dentro il monumentale parco diretti alla Villa. Più ci avviciniamo e più mi accorgo di avere i battiti cardiaci accelerati ed una inusuale frenesia che potrebbe farmi commettere degli errori. Ripeto a me stesso le regole di sempre: “devi essere invisibile, un fantasma, devi fare meno rumore di una formica”.

Quando scorgo la torre merlata ed il profilo esterno semicircolare dell’abside della cappella ho un vero torrente impetuoso nelle vene che mi fa battere forte il cuore. Quante volte l’avevo vista nelle vecchie foto, adesso ce l’avevo proprio davanti a me. Cerco di ritrovare la tranquillità ed il sangue freddo necessari per poter godere dei luoghi e ottenere buone immagini. Costeggiamo il fianco della torre fino ad arrivare al piazzale antistante la facciata nord della Villa. 

Scorgo i due pilastri di piperno che un tempo sorreggevano i due busti di Gaetano Filangieri e Giovanni Filangieri. I busti purtroppo sono stati trafugati. Scattate le foto degli esterni, decidiamo di esplorare tutto l’interno. Poi andremo alla cappella e, infine, ci dirigeremo verso l’entrata secondaria ed in basso al teatro. 

Tutti gli ingressi della Villa sono stati murati, compresi i finestroni che davano sull’ampio terrazzo della facciata sud e quindi il piano è semi buio. Accendiamo al massimo della potenza le lampade montate sulle reflex e attraversiamo una serie di stanze vuote. Una è ingombra di vecchi mobili, non riferibili ai tempi belli della villa ma agli usi recenti. Una stanza con un lungo bancone di legno impolverato, degli armadietti schedari che fanno pensare alla portineria/direzione dell’istituto. A testimonianza dei fasti passati sono rimasti gli stucchi e i bei soffitti decorati. Finalmente troviamo i saloni di rappresentanza e notiamo con sollievo che sono rimasti abbastanza preservati. Alla luce delle lampade la meraviglia è duplice: rivedere con i propri occhi qualcosa di già visto molte volte in foto e rivederla come realmente è, cioè resa con i colori non rivelati nelle foto bianco nero seppiate d’epoca. Scopriamo così che il salone dei ritratti ovali è di un delicato rosa pallido con generosi stucchi bianchissimi. Specchi ai lati creano l’illusione di un ancora maggiore ampiezza del salone. Il pavimento è di un bel marmo policromo, purtroppo molto sporco e parzialmente oscurato da polvere e detriti. I quattro ovali a soffitto sono vuoti, i ritratti di Giovanni, Carlo, Italia e Teresa non ci sono più. Anche il salone della conversazione, che nelle foto appariva monocromo, è in realtà coloratissimo nelle dominanti verde, sabbia e rosso. La decorazione parietale fonde lo stile romano a quello islamico, utilizzando anche il mosaico con la tecnica musiva e della scagliola. Ci sono sedici colonne di marmo verde che impreziosiscono otto tra porte e finestroni. Il pavimento è sporco ma basta pulirne una piccola parte con uno straccio per ammirare tutta la bellezza dei colori e del disegno. L’affresco a soffitto “grande paesaggio con ninfe” è rovinato ma ancora leggibile, con i colori ancora abbastanza vividi. Prendiamo le scale per andare ad esplorare il primo piano. Non è uno scalone monumentale, assente nello schema costruttivo di questa villa, ma più una scalinata a rampe come quella di un castello o di un edificio militare. Dobbiamo per percorrerla in fretta e con la mascherina premuta sulla faccia: c’è infatti il cadavere di un gatto ormai mummificato che emana un odore terribile. Il piano è stato trasformato dagli usi posteriori, anche se si può notare come ancora rispettata la divisione degli ambienti dedicate a camere da letto. Un grande ambiente, forse suddiviso diversamente in passato, affianca e collega un lungo corridoio su ci si affacciano diverse grandi stanze e bagni. In questo piano rimaniamo per poco tempo


È il momento di dedicarci alla cappella che occupa la torre nella parte sinistra rispetto alla facciata nord. Ha un aspetto spettrale, ma è discretamente illuminata da un lucernario sull’abside. Ha ancora le file di banchi anche se malridotti ed impolverati. Ai lati della navata sono ancora presenti le colonnette a gruppi di tre. L’altare è abbastanza integro ma è parzialmente oscurato da uno più moderno. Purtroppo il magnifico affresco dell’estasi di Santa Teresa non c’è più ma nella volta a botte è rimasto il tetramorfo di cui abbiamo parlato; una croce greca con i simboli dei 4 evangelisti canonici e al centro ancora leggibile, in latino a sinistra ed in greco a destra la frase del vangelo di Luca: Ego sum lux mundi. Qui sequitur me non ambulat in tenebris.”

Questo dipinto sembra essere stato restaurato in qualche epoca passata perché in condizioni migliori rispetto al resto. Sul fondo della cappella guardando l’uscita, a destra c’è un vecchio confessionale mentre sulla sinistra una lapide commemorativa posta da Giovanni Filangieri in memoria della sorella Teresa: Theresiae sorori dilectissimae. Ioannes Filangerius memoriam posuit.

In questa cappella hanno ricevuto i sacramenti tutti i figli di Carlo, dunque mio nonno Giovanni. 


I DUE BASSORIELIEVI DI GIOVANNI E DEL FIGLIO CARLO NELLA CAPPELLA. PURTROPPO NON SONO PIU' IN LOCO, PROBABILMENTE SONO STATI TRAFUGATI

Ci dirigiamo adesso sul lato destro della villa dove si apre un ingresso secondario, ma a parere decisamente più suggestivo. In basso, sottoposto al grande terrazzo, c’è il teatro che occupa tutta la parte bassa della Villa in tutta la sua estensione. Si tratta, come detto, di un teatro molto grande per essere privato; occupa circa un terzo dell’intero edificio. Questa è forse la parte più onirica dell’intera esplorazione. Il teatro ha un ingresso molto elegante con un arco in rilievo con decorazioni varie ispirate all’arte dove c’è scritto Teatro San Carlo, sormontato da una grande vecchia lampada ormai ridotta a rudere. L’ingresso era stato murato ma qualcuno ha buttato giù la parete. Per entrare bisogna scavalcare una insidiosa collinetta di blocchi di cemento. Sia il foyer che la sala sono ingombri di macerie, vecchi mobili, carte accatastate di ogni genere. È presente ancora qualche poltroncina d’epoca.  Anche il guano è presente in grande quantità formando dei blocchi solidi, in special modo sul vecchio palcoscenico di travi di legno. Nel teatro trovano rifugio tanti piccioni che svolazzano spaventati, sentendo minacciata la loro abituale tranquillità. Mi dirigo subito sul palco, salendo la malconcia scaletta di legno, sia per fotografare la sala con in fondo i palchi ma soprattutto per sentire sotto i miei piedi le spesse tavole di legno, le stesse tante volte calcate dai miei avi. Cerco di immaginare le loro voci, i loro gesti studiati e ripetuti decine di volte nelle prove, e gli applausi, le risate del pubblico di amici e personalità del bel mondo dell’epoca. Vorrei che potessero vedermi e compiacersi della mia presenza adesso. Forse sono seduti in platea che mi osservano, come uno spettacolo inatteso quanto surreale stavolta fatto per loro. Nascosto dietro l’arco di scena vedo il marchingegno per aprire e chiudere il grande e pesante sipario. La navata con le sue decorazioni è abbastanza preservata, non così il tondo a soffitto, del cui dipinto rimangono solo poche tracce. Gran parte è andata irrimediabilmente perduta per il distacco dell’intonaco causato certamente dall’ossidazione delle travi in ferro utilizzate dal Filosa per coprire la sala. Il teatro è sottoposto al grande terrazzo della facciata sud e probabili infiltrazioni hanno finito per ossidare le travi ed indebolire l’intonaco. Dal Foyer si accede con una scalinata a ellittica ai palchi, quattro su due livelli più uno grande d’onore centrale. Quest’ultimo avrà visto certamente la corte prussiana. Il Kronprinz, il principe ereditario al trono, Guglielmo di Prussia, era legato da sincera amicizia a Carlo e spesso ospite nella Villa. 


Non rimane che esplorare il resto del vasto parco fino alla torre piccionaia, che segnava il confine della proprietà di Carlo con quella della sorella Teresa.

Questa è forse la parte più triste della esplorazione poiché di ciò che era un tempo non è rimasto quasi niente. Tutte le meraviglie disseminate da Carlo per sé, la sua famiglia ed i suoi ospiti sono andate perdute e possiamo solo immaginare, guardando le vecchie foto, come fossero e dove fossero collocate. I viali sono ancora percorribili ed il parco è tutto sommato conservato ma non vi è più traccia della elegantissima serra, delle gabbie dello zoo, della “casetta giapponese” (la coffe house), della “casa dei conigli”. La terrazza sul mare delimitata dai pilastrini e un tempo sormontata da una sorta di elegante gazebo metallico esiste ancora, ma la struttura metallica del gazebo è ridotta a brandelli. L’argano per calare la barca non c’è più, la spiaggetta invasa da stracci e spazzatura, la casetta sul mare ridotta a rudere. La torre piccionaia è in buono stato. La parte più occidentale del parco era contrassegnata da una raggiera che aveva il fulcro in una fontana circolare, ancora esistente, da cui partivano otto viali principali che s’intersecavano con altri secondari, creando una magnifica teoria di sentieri in cui perdersi. I viali sono ormai gran parte invisibili per l’erba incolta e si è persa la magia di questa geometria. Qua le là pezzi di fontane, di panchine testimoniano ciò che rimane di un tempo. Da questo punto la villa sembra ancora più misteriosa; con il suo profilo merlato sbuca attraverso gli alberi secolari del parco. 

Ho una grande confusione in testa, pensieri di rabbia e gratitudine, tenerezza e grande malinconia. Tornano puntuali le parole di una poesia di Anna: "Chacun est prisonner de son malaise et de sa quete. Chaque vie est measuré par son intime fragilité." (Ognuno è prigioniero del proprio malessere e della propria quiete. Ogni vita si misura con la sua intima fragilità).

Se tutto il tempo è eternamente presente ed irredimibile, allora  passi echeggiano nella memoria, quei passi che insieme alle risate adesso sento distintamente provenire dai viali del parco. 

 

VIDEO di Valerio Pandolfi (riprese con drone)

L'esplorazione è stata fatta per un tempo davvero breve, nel rispetto dei luoghi e degli eventuali cartelli di divieto presenti. Nessuna intrusione in luoghi protetti da chiusure, barriere, cancelli o in presenza di divieti è stata fatta. Nulla è stato toccato e/o prelevato. 

 

IL PRESENTE ARTICOLO NON COSTITUISCE IN NESSUN MODO UN INVITO O UN INCORAGGIAMENTO ALL'ESPLORAZIONE. I LUOGHI SONO FATISCENTI E PERICOLOSI. CHI LO FACESSE, SE NE ASSUME OGNI CONSAPEVOLE RISCHIO. AD OGNI BUON CONTO RICORDATE SEMPRE LA REGOLA "LEAVE ONLY FOOTPRINTS AND TAKE ONLY PHOTOS", LASCIATE SOLO IMPRONTE E NON PRENDETE NULLA SE NON IMMAGINI.